Incontro
con Michel Poivert, per il bulletin de la Société
Française de Photographie ; pubblicato in dicembre del 2002 La casa e il mondo
Nata a Cremona, Patrizia Di Fiore vive in Francia da vent'anni. Le sue
fotografie realizzate durante dei viaggi in Vietnam, in Bosnia o verso
il suo paese natale, o come i suoi soggiorni in certe regioni della
Francia (Meuse, Pyrénées atlantiques), sono prese in una
dialetica tra la rappresentazione del mondo e quella del modello interiore
della casa familiale. Ha ottenuto quest'anno il premio 'Biarritz Terre
d’Images'.
Come vi immaginate il viaggio partendo dalla pratica fotografica
? si tratta di un'esperienza che cercate di restituire, o piuttosto
di un lavoro per rendere intelligibile le forme di un Ailleurs
?
Questo rimane sempre un'esperienza, anche se il motivo principale non
é quello. Il viaggio in Bosnia per esempio mi ha profondamente
marcato. Investirsi in un viaggio puo' cambiare una persona, questo
puo essere vero per certe destinazioni, e meno per altre. In ogni caso,
non si tratta di andare a cercare dei 'motivi', ma realmente di andare
a vedere da se stessa. Nel caso del Vietnam, questo paese aveva riempito
il mio immaginario di immagini di guerra. Quando ero bambina, le attualità
parlavano senza tregua di questo paese in guerra, e poi non se n'é
più parlato, e io sono rimasta con questo imaginario iconografico.
Inoltre, il mio interesse per il Vietnam proviene sicuramente dal fatto
che la mia vita é oramai in Francia , andavo a vedere una colonia
anziana, chiedendomi se riconescero' qualche cosa della Francia, di
una storia comune. Questa voglia di vedere la realtà presente
di un luogo rimasto rinchiuso nelle rappresentazioni oramai storiche
non ha gran ché a vedere con une approccio giornalistico.
Come definite la motivazione di un tale approccio ?
Quello che mi spinge in genere verso un luogo, é la Storia. É
dalla Storia che ho voluto fotografare la Meuse come il Vietnam. Puo'
darsi che é un desiderio di capire la Francia per me che sono
e resto italiana, di comprensione piuttosto che di appropriazione di
un ailleurs. Questo non l'ho intrapreos con l’Italia,
anche se, in certi lati, l'effettuo a livello di una storia familiale,
lontano dalla grande Storia. Non cerco a diventare francese e, sono
avanti tutto un'italiana che ha tagliato col suo paese, anche se ci
ritorno regolarmente. Ma vivendo in Francia, sono coinvolta nella realtà
francese, é cosi' che esisto.
Le vostre fotografie portano la testimonianza di questa storia, che
sia la 'grande storia' o la 'piccola storia' ?
Non si va a cercare delle 'tracce' o delle 'prove' di queste storie
; l’immagine non va a puntare quello. Le cose si risentono piuttosto
a un livello immaginario. Privileggio dei luoghi, degli oggetti del
quotidiano che traducono talvolta dei ricordi nascosti o seppelliti,
come dei sentieri o dei varchi per esempio, ma che non hanno valore
di simboli. Visualmente, affronto le cose in maniera frontale. Non ho,
a priori, esigenze in termini di luce anche se devo ammettere che mi
piace il tempo grigio, il 'brutto tempo' mi rassicura. C'é probabilmente
qualcosa di malinconico nel fatto di preferire questo. Più prosaicamente,
questo tiene anche dal fatto che lavoro col negativo a colori, detesto
i colori dell’ekta, troppo brutali, preferisco il trattamento
delicato e alle volte incipriato del negativo a colori.
Possiamo caratterizzare quello che sembra definirsi come un universo
poetico ? La situazione del viaggio,
anche se evito qualsiasi tentazione esotica, mi si é imposta
come la più propizia per il lavoro fotografico, anche se posso
fotografare al di fuori dei miei peripli. In ogni caso, c'é una
relazione tra quello che fotografo laggiù e soprattutto gli interni,
e il luogo marcato dell’interno familiale della mia infanzia.
Sono in un rapporto tra questo esterno del viaggio e l’interno
della mia propria storia. In effetti avete prodotto
numerose vedute dell’interno familiale durante differenti viaggi.
Si possono vedere degli arrangiamenti di oggetti di decorazione e di
fotografie inquadrate, ma anche il kitsch di immagini dappertutto presenti
o senno' ancora il 'charme' di un muro colorato sbiadito. Eppure, si
capisce che c'é qualcos'altro che una nostalgica celebrazione.
Questo luogo é stato fotografato in maniera ossessionale, come
sono state - ancora oggi, ma già ancora prima di riuscire a fotografare
'chez moi' - le camere d'albergo dove sono stata. Fotografare queste
camere, e spesso anche i bagni, era diventata una cosa sistematica.
A un punto tale che questa struttura della vue d'intérieur mi
ha fatto fotografare i paesaggi su un modo quasi equivalente. Sont realizzati
come degl’interni idealizzati che si spiegano con la composante
autobiografiqca del mio lavoro. 'La casa' é stata una composante
traumatica della mia esistenza, ma bisogna credere che perché
é stato 'cosi' che mi é possibile di pensare l’esteriorità
su un modo inverso, come abitato.
Niente tuttavia non sembra tradurre nelle vostre immagini un dolore
che si ravivasse. L’esigenza formale, la presenza umana che puo''
essere semplicemente evocata, esprime piuttosto una spece d’acquietamento.
Quello che nessuno potrebbe prendere per una simplice esigenza esthetica,
una forma di bellezza, mi sembra chiairamente essere il risultato di
un lavoro d’acquietamento nell’immagine.
C'é una tranquillità. Un'esigenza di tranquillità.
Ho delle difficoltà con la violenza, non potrei mai fare una
fotografia di guerra par esempio. Contrariamente, chiedermi come si
puo' vivere dopo la violenza é qualcosa che m'interessa in primo
luogo. É questa questione che sta al centro delle fotografie
del Vietnam ma anche, ovviamente, della Bosnia. Quando ho fotografato
delle donne e delle famiglie, praticando una frontalità che si
voleva essere una forma di franchezza, niente di compassionale o scioccante
doveva apparire. Bisognava essere su un filo, come questa donna bosniaca
allo sguardo chiaro, che aveva un tee-shirt con un disegno derisorio
che sicuramente l’aiuto umanitario le ha dato, uno sguardo che
annulla ogni altro messaggio presente fortuitamente nell’immagine.
Chiedo sempre alle persone che mi guardino con un scambio, con dignità
: non sono loro che devono avere vergogna, allora che io avevo vergogna
di essere di fronte a loro. Noi che avremo dovuto e potuto fare molto
di più per loro.
Propositi raccolti da Michel Poivert, dicembre 2002 |